Lo psicologo: l’artista che non ti aspetti

a cura delle dott.sse M. Cipolat, P. De Nardis, E. Marozza

tratto dalla rivista "Tracciati  d'Arte", n.14, pag.50


Un uomo seduto in maniera composta alle spalle di un lettino, occhiale tondo sul naso, fuma la sua pipa silenzioso e immobile, scrive appunti su un quaderno crucciando la fronte. È un essere misterioso e un po’ fuori di testa, una icona giudicante, una persona che non si mischia con la gente comune e che ha la risposta a tutti i grandi arcani della vita.

E chi si rivolge a lui? Eccolo lì, il povero paziente, sdraiato su quel lettino di pelle, che parla per ore da solo delle sue elucubrazioni mentali (perché chi va dallo psicologo – si sa – è un po’ matto), per poi sentirsi dire: “il tempo è finito, ci vediamo la prossima volta” e risarcire lo psicologo con una profumata parcella.

E immaginare che questo duri per anni e anni… fa diventare pazzi davvero!

Insomma… ci vuole coraggio per entrare nello studio di uno psicologo! Meglio evitare.

Nell’immaginario collettivo, la figura dello psicologo assume spesso le caratteristiche di uno stereotipo obsoleto, carico di luoghi comuni e false credenze.
Così come chi si rivolge a lui è ancora tacciato di essere “pazzo” o molto pericoloso.

E se non fosse così? E se lo psicologo fosse tutt’altra persona? E se il paziente potesse essere anche il nostro caro dirimpettaio? Se non fosse un’esperienza così terribile avere a che fare con una psicoterapia?

Iniziamo col disilludere la prima aspettativa: lo psicologo non è un grande saggio, ma una persona comune. Come tutti, ha una famiglia, porta fuori il cane, va a fare la spesa, guida una utilitaria, litiga col partner per la suocera invadente, frequenta il vostro stesso cinema e – magari – va anche lui dal suo psicologo.

È uno specialista che si è formato a lungo sui libri e sul campo per aiutare le persone a “ritrovare la bussola”: il suo obiettivo è far sì che i naviganti smarriti possano prendere una nuova rotta, consapevoli delle proprie risorse e capaci di affrontare autonomamente il mare aperto in condizioni di tranquillità e burrasca.

Uno psicologo non è necessariamente risucchiato nella sua pesante poltrona di pelle: siede spesso su una comune sedia (talvolta anche piuttosto scomoda!) e (stupore!) si alza, si muove, esce dalla stanza e poi rientra, usa il suo corpo per gesticolare, mostrare, spostare oggetti.

Come agisce praticamente lo psicologo? Quali sono i suoi “strumenti del mestiere?”

Anzitutto, non sta affatto zitto, ma interagisce in maniera attiva e partecipe, concedendosi anche momenti di ilarità e leggeri scambi colloquiali. Può proporre in seduta esercizi e giochi, può dare “compiti per casa”, può utilizzare la tecnologia come sostegno al suo lavoro, può trascorrere ore a parlare di una fotografia o invitare chi ha davanti a costruire delle sculture viventi.  

Lo psicologo a lavoro diventa una sorta di artista, che gioca con i colori, i suoni, le immagini, i movimenti, le interazioni, le luci e le ombre che si producono nella stanza.

I suoi pennelli e la sua tavolozza, tutti prodotti di alta qualità e di raffinata lavorazione, vengono spesso utilizzati in modo semplice, comprensibile a tutti. In questo contesto, la complessità dello spettro dei colori si accompagna alla praticità di mettere insieme essenziali ma efficaci tonalità cromatiche.

Incontro dopo incontro, tra psicologo e paziente si stabilisce un rapporto di fiducia e alleanza, una collaborazione attiva mirata a perseguire degli obiettivi concordati e stabiliti insieme: è la danza creativa che si crea tra paziente e psicologo che è motore di cambiamento verso la produzione dell’opera d’arte finale che ambedue hanno chiara nella mente.

Siete pronti al colpo di scena? In stanza, psicologo e paziente potrebbero non essere soli!

È frequente infatti che lo psicologo lavori in coppia con un collega e conduca insieme a lui la seduta: un secondo artista pronto a fornire il giusto colore sulla tavolozza e a ritoccare le sbavature sulla tela.

Ma non solo! Al paziente viene spesso chiesto di partecipare agli incontri con i suoi familiari, in compagnia del suo partner o spesso di un amico. Le persone che si trovano nella stanza di terapia, hanno un nome e vengono chiamate con quello, siedono anche loro su una sedia (altrettanto scomoda!) e sono liberi allo stesso modo di alzarsi, uscire e rientrare, usare il corpo, parlare, giocare.

Il paziente che ha chiesto aiuto non è un pazzo: è una persona comune che sente di vivere un momento difficile e sperimenta un disagio, ed ha la forza e la motivazione di affrontarlo per cambiare in maniera positiva.

Insomma… una psicoterapia può essere tutt’altra cosa rispetto all’immagine stereotipata che si descriveva all’inizio!
In aggiunta, non vi dispiacerà scoprire che, in favore della vostra salute, in stanza di terapia è vietato fumare la pipa… e che la parcella finale può non essere così devastante!

 










C’era una volta… E vissero, infelici o contenti?

a cura delle dott.sse M. Cipolat, P. De Nardis, E. Marozza

tratto dalla rivista "Tracciati  d'Arte", n.16, pag.50


Le sei di mattina e… “driiiiiin”! Un braccio si allunga nella disperata speranza di bloccare il tempo.  

Di colpo sopraggiunge la triste lucidità: alzarsi, riassettare i piatti della sera prima, lavarsi, vestirsi e svegliare i bambini. Lui probabilmente seguirà i passi di lei, ci si accorderà per portare e riprendere i figli da scuola (qualora non intervengano i fantastici/terribili nonni, pronti a salvarci dai ritmi frenetici delle misere 24 ore quotidiane, ma… spesso al costo di un leggero senso di intrusione!), un rapido saluto sulla porta e poi via, verso una lunga giornata lavorativa. Ci si ritrova stanchi e doloranti la sera, tra bocche da sfamare e casa da sistemare, attenti a cercare la lucidità di interessarci a quanto abbiano fatto gli altri durante il giorno, arrancando per dedicare ai figli le giuste attenzioni. Quindi l’ora delle ninne: rituale o caos finché i piccoli non stramazzano esausti… talvolta mamma e papà prima di loro.

Giorno dopo giorno la routine ci cattura, rendendoci sfuggenti, trascurati, indesiderabili.

E noi genitori? Il nostro tempo? Il nostro piacere? E… La nostra coppia?

Beh, dura la vita e soprattutto quella di coppia, lontana dagli anni del corteggiamento, della spensieratezza e dell’attenzione esclusiva al piacere di stare insieme.

Quante tappe deve affrontare una coppia… dal farsi coppia e quindi scegliersi e costruire la propria relazione, al ri-farsi coppia in ogni fase, recitando il copione che le situazioni e le esperienze contribuiscono a cambiare e rendere via via più complesso: dal matrimonio alla nascita dei figli, alla loro scolarizzazione e futura uscita di casa, fino al pensionamento e alla vecchiaia.

In alcuni momenti può essere davvero faticoso per i due partner continuare a sentirsi coppia, continuare a vedersi innamorati, amanti e complici.

Due persone rappresentano una coppia nel momento in cui condividono tre aree fondamentali: quella emotiva, quella sessuale e quella sociale, in costante comunicazione interna. Talvolta, difficoltà in un’area possono essere compensate da soddisfazione nelle altre due, ma tale funzione vicaria è solo momentanea. Nessuna coppia può rimanere tale a lungo se uno dei tre aspetti è costantemente carente, salvo una buona dose di sintomi e disagi che possono creare insoddisfazione e collasso della coppia stessa. Talvolta l’adulterio non rappresenta altro che un modo tentato dalla coppia per ricaricare una batteria scaricatasi in qualche passaggio di vita importante: a volte funziona, altre no.

“Non cambi mai!” sentiamo urlare da una stanza all’altra della casa.

Ma mentre non possiamo costringere l’altro a diventare come lo vorremmo o a fare di noi una persona amata, abbiamo il potere di rendere noi stessi persone amabili: d’altronde, ci si innamora delle immagini che l’altro ci rimanda di noi stessi, dei feedback sul nostro modo di essere.

Come ci si rende amabili? Come riappropriarci del “piacere” della coppia?

Trovando il tempo per noi e per i nostri interessi saremmo persone più stimolanti, più attraenti, più appagate.

Trovando il tempo per la coppia, potremmo sperimentare l’intimità emotiva in grado di riaccendere il desiderio del piacere: evitare di abbandonare la passione per cedere il tempo alla stanchezza, ci porterà magari a fare meno ore di sonno, ma anche a svegliarci più felici e innamorati.

Ricordarsi del proprio piacere – oltre che del dovere – contribuirà a renderci delle persone più amabili, ed essere amabili ci renderà persone amate.

Soprattutto a noi donne, perse nel ruolo di mamme e brave massaie: non aspettiamo che sia il nostro compagno a desiderarci, ma se lo vogliamo, sfruttiamo il nostro potere femminile e cuciniamocelo per bene, dosando aromi e sapori… ne guadagnerà sicuramente la coppia e… Noi!










“La Magia dell'essere genitori"

a cura delle dottoresse Cipolat, De Nardis, Marozza



Stai fermo, non ti muovere!”

“Se ti prendo, le prendi!”

“Quando fai così sembri tutto tua/o madre/padre, mi fai dannare!”

Quante volte ci è scappato di dire frasi simili ai nostri figli… e quante volte ce lo siamo sentito dire dai nostri genitori, ripetendoci da piccoli che no, noi non ci saremmo mai comportati così con i nostri futuri figli.

Ci barcameniamo tra regole arrangiate, togliendogli il gioco dalle mani, il bimbo piange, si irrita, ci irrita, le nostre forze cedono, i nervi anche. E poi scatta magari pure un bel litigio col nostro partner, che sembra avere un modo di agire totalmente diverso dal nostro (tutta colpa della suocera, ovviamente!).

Eh sì, spesso capita tutto questo, nel provare a svolgere il mestiere più impegnativo che esista: educare.

Che strana magia che è essere genitori.

Come una pozione magica dobbiamo mettere dentro tutta una serie di elementi fondamentali: una bella dose dell’idea che abbiamo dei nostri genitori, una massiccia dose dell’io bambino che ha vissuto in passato l’esperienza di figlio, un pizzico di idea razionale di come si intende educare; nella pozione bisogna poi dosare in maniera equilibrata le spezie, ovvero tutti i tipi di relazioni “altre” che possono influenzare la genitorialità: quella con il partner, quella con le famiglie di origine, il rapporto con il mondo esterno …

Insomma, diciamocelo chiaramente: fare i genitori non è per nulla semplice e a volte bisogna essere dei veri maghi per sostenere tutto ciò! Tra inciampi e riprese, strappi e ricuciture, riuscire ad essere dei genitori “sufficientemente” bravi (non troppo perfetti, mi raccomando!), porterà ad un benessere non solo per il bambino, ma per tutta la famiglia.


Procediamo quindi passo passo con la preparazione degli ingredienti di questa pozione magica della genitorialità.

 

Abbiamo detto che ci servono una dose di come vediamo i nostri genitori e una dose di come abbiamo vissuto da figli. Eh sì, perché infondo già dalla nostra nascita abbiamo sperimentato il concetto di essere genitori: per un certo verso “genitori si nasce”. Attraverso la relazione con i nostri genitori, abbiamo costruito infatti anno dopo anno dentro la nostra mente un’idea su come siamo noi stessi, su come sono gli altri e su come è il mondo che ci circonda. Da adulti, come genitori, sarà quindi molto probabile riproporre coi nostri bimbi ciò che abbiamo “imparato” da figli. Come una ruota che gira, il nostro modello appreso da piccoli e riproposto da adulti trasmetterà ai nostri figli un tipo di attaccamento. Tratteremo i nostri figli con tutti i difetti che vedevamo nei nostri genitori? Li faremo sentire allo stesso modo di come ci siamo sentiti noi in preda a qui difetti? Keepcalm. Nella nostra vita ci sono fattori che possono cambiare questo circolo vizioso, tra cui le successive relazioni che stringiamo e che ci portano a cambiare idee e rappresentazioni, il contesto sociale in cui siamo inseriti, le caratteristiche stesse di nostro figlio. Abbiamo quindi la possibilità – e la speranza! – di mettere in atto solo – o soprattutto – “il buono” di quanto appreso.

 

Altro grande ingrediente, utile proprio per imparare a gestire le nostre emozioni, istinti, paure: quella dose di consapevolezza teorica e pratica su come intendiamo educare i nostri figli. Qui è importante informarsi, formarsi, aprire le menti e l’esperienza. Siamo bravi genitori se ci apriamo a leggere, ad ascoltare i consigli degli esperti, a confrontarci con altri genitori.

 

Veniamo ora alle spezie della nostra pozione, da dosare bene e con criterio: le relazioni “intorno”. Quando nasce un bambino, la famiglia deve riorganizzarsi per formare una nuova struttura relazionale. Formiamo una famiglia, un sistema aperto al mondo che ci circonda e che si evolve durante le fasi del ciclo di vita. Bisogna ridisegnare tutti i confini, interni ed esterni.

Il primo da tenere in considerazione è il confine tra la genitorialità e la nostra coppia coniugale (o “di fatto”, aggiungiamo oggi): bisogna fare attenzione a non lasciare che i conflitti di coppia inficino la nostra capacità di gestire la co-genitorialità e al contempo nonlasciare che la genitorialità ci faccia dimenticare di investire sulla nostra coppia.  


Ci sono poi i confini della famiglia con le famiglie di origine. La relazione con le famiglie di origine è una spezia importante che offre un sapore buono e importante alla nostra pozione… ma occhio! Ne basta un piccolo eccesso nella dose a far sballare tutti gli equilibri!

 

Infine parliamo delle spezie relative ai confini col mondo esterno: la scuola dei bimbi, i luoghi di lavoro, i contesti ludico-ricreativi, i rapporti con amici. Questi è importante che siano adeguatamente permeabili, perché possiamo trarre giovamento da questi contesti: è un errore lasciarcene risucchiare perdendo la nostra identità familiare o lasciarcene spaventare rischiando di chiuderci in barriere rigide e protettive.

 

Fatta la pozione magica della genitorialità.

Ma non finisce qui.Bisogna saperla usare questa pozione.

Insieme, in due: una magia a quattro mani.

La prima regola per diventare dei bravi genitori, come dei bravi allenatori di una squadra, è pensare in due agli schemi di gioco da proporre ai piccoli giocatori. E questo si fa a porte chiuse, negli spogliatoi. E qui va bene discutere, ascoltare le diverse posizioni come risorsa, è sano negoziare regole chiare, coerenti che offrano contenimento. È importante tenere a mente che una buona coerenza tra gli stili educativi ed affettivi dei due genitori è la base su cui partire per iniziare il nostro buon lavoro. Dei genitori che assumeranno atteggiamento autorevole mostreranno un'idea chiara delle regole da attuare, rispetteranno i desideri del bambino favorendo gli scambi verbali e manifestando affetto e calore.

 

“Magicamente”, tutto ciò ci farà sentire davvero competenti, capaci, bravi.

“Magicamente” tutto ciò porterà nel bambino serenità, sicurezza in sé.

“Magicamente” la famiglia diventa luogo di armonia, di equilibrio, di benessere per tutti.

Bene, è giunto il momento di giocare e sperimentarciper vincere insieme una delle più faticose ma “magiche” partite della nostra vita: quella di essere genitori!

 


M. Cipolat, P. De Nardis, E. Marozza

Psicologhe del Centro di Psicologia Clinica“La Bussola dei Naviganti”



D come Donna, D come Desiderio

a cura delle dott.sse M. Cipolat, P. De Nardis, E. Marozza

 

 

A Silvia non serve la sveglia, alle 6:20 è già in piedi a preparare la colazione ai suoi bambini, caffè al marito, baci del buongiorno. E via, pratica e veloce verso la campanella della scuola, consueta pausa caffè con le mamme e poi subito a casa per pulire, sistemare, stirare, cucinare, fino a sera…fino a notte. Se le chiedi se è stanca, ti dice di no. Ma dove è finita la sua passione per l’arte?

 

Barbara invece la sveglia la imposta sempre cinque minuti prima, perché si deve preparare, e ci vuole tempo. Doccia, crema, piega ai capelli, vestito in tiro, scarpa col tacco... “Accidenti alla pancetta e a quella ruga” – pensa allo specchio – la fanno sentire un po’ avanti con l’età all’aperitivo con le colleghe single dell’ufficio. Se le chiedi se si sente realizzata, ti dice di sì. Ma l’età avanza, e quel suo desiderio di maternità si fa sempre più lontano.

 

Vanessa, lei è sempre ligia al suo dovere si alza con puntualità. Quel ghigno battagliero nel leggere le notizie del giorno con in mano il suo caffè e la sua sigaretta fumanti, capelli sfibrati e raccolti frettolosamente. La aspettano in piazza, per quella manifestazione… Se le chiedi cosa è importante per lei, ti risponde “la pace”. Ma la pace con se stessa, Vanessa non la fa mai.

 

Alcune scene tra tante vite femminili, tra tante storie.

Il soggetto di queste storie è senza dubbio la Donna di oggi, una donna che nel suo quotidiano si trova immancabilmente a conciliare l’inconciliabile, tra il fuori ed il dentro.

Donne che oggi scelgono chi essere, cosa essere.

Nella contraddizione tra l’essere chi hanno scelto di essere e la nostalgia di chi hanno deciso di non essere più.

Siamo davvero in grado di scegliere la nostra strada di Donna?

Siamo davvero libere da stereotipi e gabbie che imprigionano il nostro ruolo di Donna?

 

La donna nei secoli è stata vista sempre come oggetto di desiderio, femmina desiderata dal maschio perché è colei che offre affetto, doti culinarie, un corpo accogliente, remissione, pacatezza.

Riconosciuta da tutti come la protagonista assoluta dell’area emotiva, più raramente ha ricevuto e riceve conferme nel suo essere soggetto sessuato e pensante[1]. Ci hanno fotografate così. Come oggetti.

 

Finché un giorno, donne coraggiose hanno cominciato a combattere l’uomo (insieme alla sua visione della donna “oggetto”), nella ricerca dei propri diritti, dai diritti civili e politici, fino a quelli che riguardano il loro corpo e la propria indipendenza. Hanno combattuto l’uomo nella speranza di vedersi uguale a lui.

Queste lunghe battaglie, le abbiamo nel DNA, noi donne. In alcune ci riconosciamo con orgoglio, ne siamo soddisfatte. Sono state conquiste importanti per la nostra civiltà, quelle che ci hanno riconosciuto diritti importanti.

 

Ma c’è un labile confine che noi donne di oggi rischiamo di valicare, c’è una trappola in cui non dobbiamo rischiare di cadere: donne e uomini non sono uguali. Non lo sono costituzionalmente, non lo sono nel pensiero, non lo sono nelle mansioni.

La donna confonde a volte il proprio bisogno di desiderare, di essere, di pensare, di agire con la condizione di “essere uguale all’uomo”. Questo genera una grande ambiguità.

 

No.

Si può desiderare, essere, pensare e agire continuando a essere Donne. È questa la conquista.

Siamo noi a dover smettere di guardarci come oggetti, siamo noi a doverci riappropriare di noi stesse, delle nostre emozioni, dei nostri pensieri, restando nel ruolo di donne, speciali come siamo.

Impariamo a riappropriarci del nostro tempo, delle nostre passioni e desideri, fermandoci e dedicando uno spazio non al ruolo che rivestiamo, “madre, moglie, lavoratrice”, ma a noi come persone, pensanti e desiderose... A noi come NOI STESSE!

È proprio qui che avviene il punto, nel cambiamento, nel vedersi con occhi differenti come SOGGETTI.

Possiamo decidere di essere mogli, compagne, madri, single, lavoratrici professioniste o dipendenti, missionarie, religiose, laiche, artiste e tutto ciò che vogliamo essere di bello nella vita.

Iniziamo ad amarci come Donne. Perché siamo speciali così.

Siamo brave nel fare e pensare più cose insieme, diamo luce ai nostri figli, siamo ottime professioniste, siamo brave mediatrici e diplomatiche astute, sappiamo fare economia meglio di chiunque, siamo intelligenti perché sappiamo emozionarci, sappiamo donarci e amare, sappiamo essere ferme quando dobbiamo rispettarci.

Iniziamo noi stesse ad avere più rispetto per le donne, per tutte le donne e per noi stesse in primis.

E se vogliamo, se desideriamo qualsiasi cosa, che sia il nostro uomo o la nostra felicità, allora prendiamocela: non chiediamogli di prenderci o di desiderarci. È un modo per riconoscerci la nostra dignità come nuovo soggetto di desiderio.

Essere soggetto infatti significa diventare persona con delle particolarità e qualità. È diventare identità, è essere qualcuno, è sentirsi se stessi e lasciare una traccia per questo. È proprio con queste caratteristiche che possiamo renderci attive e registe della nostra vita prendendoci la responsabilità di essa.

 

Sicuramente la strada sarà intervallata da piccole vincite e alcune sconfitte. L’ “io posso” è una scoperta che dà sempre una forza nella donna in qualunque area, ma una volta sperimentato non diventa un meccanismo che facilmente scatta automatico. Occorre ritrovare l’ “io posso” quando si perde, e poi sperimentarsi di nuovo.

Un cambiamento in noi stesse deve essere necessario, e si può iniziare nel modificare la nostra visione del mondo, partendo da uno sguardo differente rispetto al passato. Riuscire comunque ad agire un comportamento capace di sorprendere se stessi è spesso la migliore via di cambiamento.

 

Donne, il nostro orgoglio è essere Donne.

Amiamoci per quello che siamo, perché siamo noi a stabilirlo e iniziamo a Desiderare cucinandoci la nostra felicità.




[1] M.G. Cancrini, L. Harrison, Potere in amore, Roma, edizioni l’ed, 1991




Capaci di essere magre

a cura della dott.ssa M. Cipolat

 


Paola ha 13 anni e sta malissimo da quando Luca, il suo primo ragazzo, l’ha lasciata per un’altra, più grande e disinibita.


L’aria in casa d’altronde non aiuta… Vanessa, la mamma, è preoccupata per la sempre più determinata inappetenza della figlia, mentre Marco, il padre, crede sia solo una fase di passaggio: “Paola è un po’ triste e da solo meno attenzione al cibo”, questo si dice; le liti e le recriminazioni così si acuiscono… tra i genitori, che ritengono ognuno folle la        
posizione dell’altro, e tra questi e Paola, incapaci di comunicare se non con urla e ritiri perché non si comprende, perché si ha paura, perché bisogna trovare un modo per staccarsi e crescere.


Intanto i giorni passano e quella capacità di limitarsi nel mangiare, di darsi una regola sempre più restrittiva e difficile da rispettare gratifica Paola nella sua abnegazione, quasi… in una fase così complessa com’è l’adolescenza, in cui non si sa quanto si sia bambini e quanto adulti… tale capacità di autocontrollo da senso e definizione ad un giovane bruco che non sa come divenire farfalla. E così l’ossessione diventa sempre più tenace, Paola sfida se stessa nella tragica capacità di saper resistere a quel cucchiaio in più o a quel gelato che tanto le piace e ancora, aumenta la sua autostima sentendosi caparbia nell’andare tutti i giorni in palestra e riuscendo a svegliarsi prestissimo, così da ripassare i compiti ed essere perfetta per l’interrogazione…


Le mestruazioni scompaiono e questo rassicura Paola, ancora incapace di gestire un corpo da donna, come con Luca che magari chiedeva qualcosa di cui lei non si sentiva pronta. Da poco infatti era passata dalle maxi maglie, perfette per coprire le prime forme, alle t-shirt attillate che tutte le sue amiche portavano e che piacevano a Luca… Forse, mandare via il ciclo e cancellare la sinuosità di un corpo che sboccia rende più facile arginare l’irrompere della sessualità che tanto spaventa…

D’altra parte Paola ricorda bene tutte le preoccupazioni di sua mamma rispetto a Luca, alle gonne corte e a come comportarsi con i ragazzi, opposte alle avance del suo ex ragazzo e ai commenti pungenti dei suoi compagni/e di scuola.


Anche i professori non sanno se dare importanza alla magrezza sempre più evidente: Paola è una ragazza studiosa, educata con una famiglia attenta e presente.


Quasi nessuno sente il tacito urlo che inconsapevolmente Paola sta lanciando…neanche lei sa di urlare e infatti lo fa a bocca chiusa…


E poi in tv, sui giornali le ragazze sono tutte così magre e perfette, non esistono brufoli, rotolini o accenni di cellulite… tutti elementi da eliminare se si vuole essere alla moda, belle come la società ci vuole…

 

Chissà come evolverà la storia di Paola, se sarà in grado di riappropriarsi della sua crescita o continuerà a mantenere un peso inesistente da renderla visivamente invisibile agli altri, così da rimanere né donna, né bambina.


L’anoressia, come gli altri disturbi dell’alimentazione, sono sindromi complesse che investono diversi piani della persona e del rapporto con gli altri: la sfera individuale, nell’incapacità di avere consapevolezza del proprio vissuto emotivo, esibendo tale difficoltà nel corpo; la sfera familiare, in un clima oscillante tra l’alta conflittualità e la fusione, rappresentativo della fase di sviluppo, in cui si vuole crescere ma è difficile abbandonare le sicurezze dell’essere bambina; la sfera sociale, tra i nuovi imperativi provenienti dal gruppo dei pari e le paure dei propri genitori; la sfera culturale, che esige donne da photo shop, provocanti e disinibite in un contesto sociale in cui lavare i piatti e stirare le camice sembra ancora una predisposizione essenzialmente femminile…


Bè, ardua la vita per le giovani ragazze che si affacciano alla pubertà.

L’adolescenza infatti rappresenta una fase delicata di cambiamento, non solo individuale, ma soprattutto per l’intero sistema familiare, in cui le regole, capaci di garantire un certo equilibrio, devono necessariamente essere messe in discussione: i ragazzi crescono e bisogna trovare soluzioni che confermino l’appropriarsi di una crescente autonomia. Questo può essere molto complicato specialmente nelle famiglie eccessivamente unite, in cui le emozioni circolano visivamente tra genitori e figli. In tali nuclei l’evitamento dei conflitti e la rigidità garantiscono una effimera protezione dalla paura del cambiamento, con la strutturazione di sintomi e malesseri in grado di segnalare il blocco ad una configurazione inappropriata al periodo di vita familiare.


Ecco che la capacità di diventare sempre più magre rafforza una falsa sensazione di controllo, affermando da un lato la proprio autonomia e attivando, paradossalmente, l’attenzione degli altri come richiesta di aiuto da parte di chi è ancora incapace di funzionare da solo e richiede il soccorso di mamma e papà.

Il sintomo anoressico allora funziona quasi da scudo, contro una sessualità che diventa esteriormente matura ma che ancora non si sa gestire, proteggendo la persona dagli altri e dalla crescita che cancella le sicurezze della fanciullezza.


In tale processo diviene preziosa la capacità di riconoscere quanto sta succedendo e attivarsi per favorire il dispiegarsi del percorso evolutivo, sostenendo la famiglia, laddove lo necessiti, nella strutturazione di nuove regole adatte alle nascenti esigenze e l’adolescente ad appropriarsi gradualmente della propria età, affacciandosi con curiosità e coraggio a se stesso e alla socialità.

 

DSA: MITI, ESTRI, POSSIBILITA'

 pubblicato su "Tracciati d'Arte", n.17, pag.74

 

 

Da qualche anno a scuola non si parla d’altro: i Disturbi Specifici dell’Apprendimento.

Tanti i bambini che oggi vengono “etichettati” come DSA: un acronimo, una diagnosi diventa il loro secondo nome.

“Una volta, mica c’erano i dislessici”, si sente dire.

Eppure quanti di noi, se i DSA fossero statinoti una quarantina d’anni fa, saremmo stati diagnosticati così. Eravamo quelli de: “il bambino è svogliato”, “non si applica”, “può fare di più”.

Sfatiamo il primo mito: la dislessia esiste da sempre.

Ad un occhio attento, li noti i DSAadulti. Li vedi smarriti nei centri commerciali, fuori tempo in pista da ballo, mentre sfogliano il giornale verso destra: nessuno aveva diagnosticato loro alcun disturbo in infanzia, le uniche dispense che ricevevano erano dalla cena, in punizione dopo il colloquio con la maestra!

I dislessici non trattati sono oggi sani e salvi, insomma. Alcuni hanno addirittura sviluppato estri e doti straordinarie, diventando famosi come Albert Einstein, Mozart e Vincent Van Gogh.

Smentiamoquindi un secondo mito: il DSAnon è una malattia eci si convive.

Ciò che fa la differenza è “come” ci si convive.

Se chiedessimo agli adulti dislessici come hanno vissuto i loro anni scolastici, probabilmente risponderebbero che non èstata una passeggiata di salute. Anni di fatiche, di frustrazione, di isolamento, di incomprensione.

Terzo falso mito: il DSA non è un “problemino scolastico” da sottovalutare,ma è una sindrome che crea disagio, in diversi aspetti: a scuola, nello sport, nel gioco di squadra, nell’orientamento spazio-temporale, nella memoria, nell’organizzazione del pensiero.

E allora il dislessico è spacciato?

No, abbattiamo il quarto mito:migliorare si può.

La dicitura “Disturbo dell’Apprendimento” è fuorviante: il problema non è nell’apprendere, ma nell’esercizio della funzione appresa.

E allora, migliorare si può: è necessario esercitare la funzione, allenare le capacità.

Uno sportivo impossibilitato ad allenarsi per molto tempo, cosa farebbe per recuperare il tono dei suoi muscoli impigriti? Si piazzerebbe sul divano, oppure si allenerebbe giorno dopo giorno?

Ecco, parliamo del “mettersi sul divano”, parliamo degli strumenti dispensativi e compensativi.

Ridimensioniamo il mito che il bambino dislessico debba necessariamenteavere sempre degli ausili.

Ci sono momenti in cui va bene disporre di strumenti: sono le valutazioni, gli esami. Qui la difficoltà primaria non deve inficiare una prestazione tesa a valutare l’acquisizione di argomenti didattici.

Ma se ogni giorno c’è qualcuno che legge per me, se ho sempre a disposizione una calcolatrice sul tavolo, se posso scrivere col pc anziché con la penna… Sarò mai bravo a leggere, calcolare, scrivere?

E poi…essere sempre quello con il compito diverso dagli altri, l’unico con il dispositivo sul tavolo, quello dispensato dal leggere… Non vi rimanda un’idea di impotenza, di frustrazione, di irrimediabile incapacità?

Smascheriamo un ultimo mito: il bambino con DSA non è un bimbo stupido, che preferisce “non fare” rispetto al “fare male”. È piuttosto un bambino molto più sensibile degli altri rispetto alle sue capacità, un bambino che misura il valore di se stesso in base ai giudizi che riceve.

E allora, costruiamo nuovi miti.

Smettiamo di chiamarlo “bambino DSA” e diamogli un nome proprio: è Giulio, è Laura.

Vediamolo nella sua personalità, impariamo a conoscerlo. Sicuramente ha un estro o una capacità brillante che ci stupirà.Sproniamolo a fare e ad allenarsi, convinciamolo che può migliorare.

Lodiamo i suoi successi e sosteniamolo nell’acquisizione di strategie per funzionare meglio. Giochiamo con luia morra, facciamoci raccontare un film, leggiamo i cartelloni pubblicitari mentre siamo in auto.

D.S.A. può essere un acronimo che non riguarda i nostri figli, ma noi genitori, insegnanti, educatori.

D.S.A. come un messaggio che dice: Devi Semplicemente Ascoltarlo.